Questa storia è stata scritta per il Concorso di scrittura indetto da Sunjeon su Wattpad, del quale riporterò anche la votazione alla fine.
Il tema era il seguente: scrivere una one-shot a partire da questo testo ” Era polverosa la cantina della nonna, polverosa e buia. Continuai a camminare a tastoni nell’oscurità, fino a quando non andai a sbattere contro qualcosa di appuntito. Tastai al meglio l’oggetto: era una cassa! L’aprii, e una forte luce uscì da dentro di essa. Quando il bagliore cominciò ad affievolirsi, notai una cosa all’interno della cassa.”

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Era polverosa la cantina della nonna, polverosa e buia. Continuai a camminare a tastoni nell’oscurità, fino a quando non andai a sbattere contro qualcosa di appuntito. Tastai al meglio l’oggetto: era una cassa!
L’aprii, e una forte luce uscì da dentro di essa. Quando il bagliore cominciò ad affievolirsi, notai una cosa all’interno della cassa.
Accecata da quella luce improvvisa rimasi per un lungo momento a sbattere le palpebre e stropicciarmi gli occhi, senza di fatto ottenere alcun risultato.
Quando finalmente mi abituai alla luminosità mi lanciai un’occhiata in giro, notando come la cantina che mi era sempre stato detto di evitare perché piena di oggetti vecchi e pericolanti era in realtà una stanza vuota, se non per la cassa che avevo appena aperto.
Sospirai. Ero nei guai. Di nuovo. Ormai tanto valeva andare fino in fondo.
Riportai la mia attenzione sulla fonte di luce davanti a me e mi resi conto che quella luminescenza, che tanto infastidiva i miei occhi sensibili, veniva da una doppia fila di led che qualcuno aveva fissato con attenzione all’interno della cassa.
Feci una prova: abbassai di nuovo il coperchio e la luce si spense. Il contatto doveva essere ben nascosto, perché neanche il mio più attento esame lo rivelò. Decisi quindi di spostare la mia attenzione sull’oggetto di cui intravedevo appena i contorni.
Lo presi in mano, esitante. Era pesante, al tatto sembrava rivestito di pelle e un profumo di carta vecchia mi colpì le narici mentre lo sollevavo, per poi dare le spalle alla luce così da poterlo esaminare a dovere.
Una scritta in lettere dorate era stata ribattuta sulla copertina di quello che, capii leggendo il nome di mio padre inciso sulla pelle nera, era un vecchio diario.
Rimasi per un attimo interdetta. Un diario? In una cassa in cantina? Che cliché!
A quel pensiero ridacchiai da sola, ma mi zittii subito nel sentire un suono di passi sopra la mia testa. Gli altri dovevano essere tornati dal loro giro in città e questo voleva dire che dovevo darmela a gambe o mi avrebbero beccata.
Rapida come un furetto chiusi la cassa alle mie spalle e corsi nelle fitte tenebre fino a dove sapevo avrei trovato le scale. Inciampai sul primo gradino, ma per fortuna recuperai l’equilibrio e da lì in poi la salita fu semplice, mi affidai all’istinto e in men che non si dica mi ritrovai a schizzare verso camera mia.
Solo quando mi accasciai contro la porta, il fiato corto e il cuore che batteva all’impazzata, mi resi conto di avere ancora il diario stretto al petto.
Una fitta si senso di colpa mi attraversò, subito seguita da una ben più forte scarica di adrenalina. Se la nonna teneva quel diario nascosto in cantina c’era di certo un motivo! Dovevo scoprire quale fosse, me lo imponeva la crescente curiosità che presto prese il completo controllo della mia mente.
Mi guardai intorno, lanciai uno sguardo complice al gattino di pezza immobile sul mio cuscino e con poche falcate raggiunsi il letto, per poi infilare il diario tra la rete e il materasso senza la minima esitazione.
Sarei scesa a cena, avrei fatto finta di nulla, avrei guardato qualche programma televisivo con papà e la nonna e solo allora sarei tornata di sopra per scoprire quali oscuri segreti si nascondevano nell’adolescenza del mio amato padre.
Era un piano perfetto, mi dissi. Senza ombra di dubbio!
Ridacchiando sotto i baffi spalancai la porta e scesi di sotto, pronta ad aiutare gli altri a mettere in ordine gli acquisti, come facevo sempre.
Fu solo dopo quattro ore di estenuante attesa che misi nuovamente piede in camera mia, questa volta chiudendomi la porta alle spalle con una mandata della vecchia chiave, abitudine che avevo preso passati i dodici anni e che tuttora, quattro anni dopo, la nonna non aveva ancora imparato a tollerare. Il pensiero delle sue preoccupazioni, però, era l’ultimo di una lunga lista nella mia mente occupata solo dal diario che mi attendeva.
Lo recuperai dal suo nascondiglio e con un salto mi sedetti sul materasso, per poi sistemarmi a gambe incrociate. La luce della lampada sul comodino illuminava perfettamente le lettere incise sulla copertina di pelle e con le mani che quasi tremavano dall’emozione aprii la prima pagina.
La scrittura leggermente inclinata di mio padre mi si presentò davanti in fitte linee ordinate che si susseguivano dalla prima all’ultima pagina, intramezzate da qualche disegno e annotazione scritta in stampatello.
I miei occhi corsero subito alla data della prima pagina. Otto dicembre 2039.
Non cercai neanche di nascondere la delusione. Stando alla data quel diario non mi avrebbe rivelato le avventure di papà da giovane. Io ero già nata a quell’epoca, avevo due anni per la precisione.
Poco male. Mi accomodai meglio e presi a leggere, l’entusiasmo originario un po’ sgonfiato ma ancora presente.
“L’esperimento che ho in mente di realizzare è qualcosa di mai tentato prima, su questo non c’è dubbio. Ho deciso quindi di tenere un diario cartaceo oltre che digitale per lasciare spazio non solo alla mia creazione, ma anche ai miei pensieri. Terrò questo per me, nessuno potrà visionarlo. Agli interessati consentirò l’accesso solo al video diario.”
Eccola tornare. La curiosità era, se possibile, due volte più selvaggia di prima. Un diario segreto che seguiva il suo lavoro? Che fosse quello del suo famoso esperimento sulla depurazione delle fonti idriche? Un tremito mi corse lungo la schiena. Quell’esperimento lo studiavano anche all’università!
Presa dalla foga voltai pagina e mi immersi nella lettura.
Non ci volle molto per capire che le mie conclusioni erano state troppo affrettate. Giunta alla pagina in cui riportava i materiali acquistati avevo già capito che quel diario non parlava del macchinario di depurazione, ma di qualcosa di diverso.
Perplessa, andai avanti finché con un sospiro strozzato non trovai una lunga pagina di annotazioni personali.
“Questo esperimento mi sta togliendo il sonno, ma è un bene. Sara è diventata insostenibile – trattenni il fiato: parlava di mia madre! – desidero avere un figlio o una figlia con tutto il cuore, ma lei è irremovibile. Non vuole saperne di sostenere una gravidanza, neanche l’adozione è un’opzione per lei, continuo a supplicarla e guardarla mentre mi ignora. A questo punto, meglio passare la notte in laboratorio. Quando questo esperimento sarà completo non avrà più nulla da dire in proposito.”
Rilessi quella pagina più volte. La storia che traspariva dalle pagine di quel diario non aveva senso.
Mi aveva sempre parlato di mia madre come una donna amorevole e dolce, dicendo che aveva scelto di darmi alla luce anche se sapeva di rischiare la morte partorendo, come poi era stato. Ma soprattutto, perché mio padre diceva di volere un figlio o una figlia da mia madre quando io avevo già tre anni?
Guardai la data per essere certa di non aver letto male e scossi la testa. Cinque aprile 2040. Mia madre era già morta da tre anni. Chi era, dunque, questa Sara? Una donna che mio padre aveva frequentato dopo la mia nascita e dalla quale voleva un secondo figlio? Trovai l’omonimia con mia madre inquietante ma continuai a leggere, ora incapace di smettere.
Da quella prima annotazione personale, il diario che avevo trovato nella cassa alternava sempre più spesso note sulla vita privata di mio padre agli appunti sull’esperimento. Mentre i secondi erano ormai troppo complicati perché riuscissi a seguirli, i primi mi lasciavano sempre più perplessa man mano che procedevo.
“Sara dice che sono pazzo. Che l’ho sposata sapendo che non voleva figli. Mi rifiuto però di lasciare questo mondo senza lasciare una sola traccia di me.”
E ancora: “Se solo avessi un figlio o una figlia a cui tramandare le mie scoperte sono certo che sarebbe più facile proseguire dopo tutti questi fallimenti. Non posso mollare ora o sarà tutto inutile.”
E poi, alla data due febbraio 2042: “Sara ha interrotto di nuovo il mio lavoro. Dice che sono pazzo, che se non la smetto subito mi lascerà e tornerà a vivere con suo padre. Non capisce nulla. Non vede che è colpa sua se sono costretto a fare questo? Ormai sono vicino. Non mi fermerò.”
Di nuovo mi soffermai a lungo sulla data. Se questa Sara era stata con lui fino a quel momento, perché non mi ricordavo di lei? Le sbiadite memorie del mio quarto compleanno, festeggiato con mio padre, mia nonna e mio zio, oltre a qualche amichetto dell’epoca, galleggiarono nella mia memoria. Nessuna Sara, neanche un viso sconosciuto.
Ma soprattutto, perché un diario, che narrava anche delle piccole disavventure di mia nonna col postino che aveva sbagliato indirizzo, non accennava a me neanche una volta?
Un pensiero mi trafisse la mente come se qualcuno lo avesse messo lì a proposito. Dovevo smetterla di leggere quel diario, non ne avrei tratto nulla di buono. Stavo per lanciarlo via quando decisi che no, non avrei smesso. Sarei andata fino in fondo.
Forte di una nuova determinazione presi a girare le pagine più veloce, senza pensare che rischiavo di strapparle.
“Sara ha preparato le valigie, era già arrivata alla macchina quando l’ho raggiunta. Abbiamo litigato per ore ma alla fine l’ho convinta a restare. Non è stato facile mentirle, ma ora ho capito come mai l’esperimento continuava a fallire. Mi serve qualcosa che ha lei, pezzi che non posso acquistare da nessuna parte. Non può andare via. Non adesso.”
Guardai la data. Tre marzo 2042.
Seguivano due pagine piene di nomi da maschio e da femmina, alcuni tagliati, alcuni sottolineati, altri semplicemente dimenticati. Su ogni pagina solo un nome era stato cerchiato. Michele su quella di nomi maschili e Sabrina su quella di nomi femminili.
Nel leggere il mio nome cerchiato con quell’inchiostro blu il diario mi scivolò dalle mani e cadde con un tonfo ovattato sul materasso, aprendosi su una pagina a caso sulla quale, mio malgrado, mi cadde lo sguardo.
Dodici marzo 2042
“Finalmente il prototipo è pronto. Alla fine ho scelto una femmina, un maschio sarebbe stato troppo rischioso senza i giusti materiali. Sistemare Sara non è stato difficile, sono bastate un paio di pillole. Se non altro potrò dire alla bambina che ha gli occhi di sua madre.”
Le mani tremanti salirono a tastarmi le guance mentre alzavo lo sguardo verso lo specchio del comò di fronte al mio letto. Ci vidi una ragazzina di sedici anni che ricambiava il mio sguardo terrorizzato con lucidi occhi castani. Per la prima volta li fissai sotto una luce diversa. Gli occhi di mia madre. Me lo diceva sempre, lui. Sempre, da quando avevo memoria.
“Temo di aver esagerato coi materiali. Ora il prototipo è stabile, ma nessuno scambierebbe quel corpo per quello di una neonata, dimostra almeno tre anni. Ciò creerà un problema col file di memoria, devo pensare a come risolverlo.”
“Grazie a dei filmati trovati in internet sono riuscito a mettere insieme un buon database di ricordi. Il prototipo li avrà con sé quando aprirà gli occhi. Ho aggiunto qualche video di me che parlo a una bambina immaginaria, così, se ho fatto tutto come dovevo, mi riconoscerà al primo sguardo.”
“L’attivazione del prototipo è prossima. Cosa farò se funzionerà? Sarò finalmente padre, ma sono davvero pronto?”
Ormai voltavo le pagine con furia selvaggia, un paio di queste si strapparono e volarono sul pavimento, ma sul momento non ci feci neanche caso. Continuai a proseguire nella lettura, lacrime senza controllo che mi segnavano le guance.
“Ha aperto gli occhi e mi ha chiamato papà. Non ho resistito. Ho pianto.”
Mi fermai. Il ricordo vivido nella mia mente. «Papà?» avevo detto, mettendomi a sedere su un letto estraneo. Lui era scoppiato in lacrime. Mi aveva poi detto che ero caduta e mi ero fatta molto male e che aveva temuto non mi sarei svegliata più.
“Sono felice…”
«Sono felice» aveva detto. «Pensavo di averti persa.»
“… che l’esperimento sia riuscito.”
Rimasi immobile. Mi accorsi di star singhiozzando quando mi mancò l’aria e cercai di calmarmi, ma fu tutto inutile.
Scivolai sul pavimento inghiottendo piccoli respiri a fatica. Mi fischiavano le orecchie. Impiegai quasi dieci minuti ad accorgermi che mi ero ferita cadendo e per allora una macchia rossa aveva segnato lo scendiletto azzurro.
Guardai come se non fosse il mio il ginocchio che sanguinava, ancora incredula da quello che avevo letto, incapace di rendermi conto che, stando a quello che era scritto in quel diario, tutta la mia vita, la mia stessa esistenza era una menzogna.
Ero… no, non ero un essere umano. Non ero una ragazzina come le altre, non lo sarei stata mai più. Ero uno di quei bioautomi sperimentali di cui parlavano tanto nei programmi serali. Quelli che papà diceva essere noiosi e che toglieva sempre per mettere qualche canale che trasmetteva vecchi film.
Ero una menzogna, cresciuta nella menzogna. Eppure le mie ginocchia sanguinavano e quelle sul mio viso erano senza dubbio lacrime, delle quali sentivo il sapore salato sulle labbra.
Cosa diavolo ero?
Senza curarmi delle pagine strappate intorno a me scoppiai in un pianto disperato, soffocando i singhiozzi tra le mani tremanti. Fu per questo che non li sentii finché non furono proprio davanti alla mia porta.
«… sei certo?» chiese la voce di nonna.
«Ti ripeto che il diario è sparito. Lo controllo ogni sera, lo sai bene. Può averlo preso solo lei.» la voce di mio padre suonava più irritata che furente. «Di nuovo.»
Trasalii. Cosa voleva dire che lo avevo preso… di nuovo?
«Ti avevo detto di buttarlo nella stufa, quel maledetto affare! È la settima volta che lo trova!»
«Ho già eliminato tutti i video dell’esperimento. Non mi restano altri registri!» fu la secca risposta di mio padre.
Sotto i miei occhi – no, gli occhi di mia madre – la porta si spalancò nonostante l’avessi chiusa a chiave. Mio padre apparve sulla soglia brandendo uno di quei marchingegni che servivano a forzare le porte chiuse a chiave in caso i bambini piccoli si chiudessero dentro per sbaglio.
Non ero neanche mai stata al sicuro in quella stanza.
Dalla mia posizione seduta vidi stagliarsi su di me le due figure, mia nonna aveva gli occhi lucidi e l’espressione preoccupata. Mio padre… non ebbi il coraggio di guardarlo in volto.
Cercai di indietreggiare di riflesso, ma alle spalle avevo il letto che mi impediva di muovermi.
Per un attimo ci fu totale silenzio, poi mio padre emise un sospiro e si avvicinò con passi lenti e misurati, per poi accosciarsi davanti a me, come faceva sempre quando ero piccola.
«Avanti, su, basta lacrime.» mi redarguì con un mezzo sorriso. «Adesso mettiamo un cerotto su quel ginocchio, poi papà ti resetta di nuovo la memoria e passerà tutto. Vediamo se questa volta riesci a stare lontana da quello scantinato.»
Votazione finale: 49/50
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